Nel complesso e doloroso mosaico del caso Garlasco, una nuova tessera sembra spostarsi, rimettendo in discussione uno dei dettagli apparentemente secondari ma potenzialmente rivelatori. A gettare una luce diversa su un frammento della vicenda è Albina Perri, direttrice del settimanale Giallo, che ha deciso di esporsi pubblicamente su un dettaglio mai chiarito del tutto: la verità sul presunto gesso di Paola Cappa, cugina di Chiara Poggi.
Chiara fu trovata uccisa nella sua abitazione a Garlasco il 13 agosto 2007. Il suo fidanzato dell’epoca, Alberto Stasi, dopo due gradi di assoluzione, è stato definitivamente condannato in Cassazione a 16 anni di reclusione. Ma a distanza di quasi due decenni, il dibattito sulla ricostruzione dei fatti continua ad alimentarsi con nuove dichiarazioni e analisi.
“Non c’era alcun gesso”: la dichiarazione della Perri che cambia prospettiva
Secondo quanto affermato da Albina Perri, il racconto di Paola Cappa – o meglio, di un messaggio attribuito a lei – presenterebbe una discrepanza significativa. In quel messaggio, la giovane avrebbe scritto che nei giorni in cui avvenne l’omicidio stava portando un gesso e si era recata a rimuoverlo. Ma per la Perri si tratta di un errore o, peggio, di una possibile incongruenza: “Paola Cappa non ha mai avuto un gesso. Portava un tutore mobile, che poteva essere rimosso in qualsiasi momento”.
Non è solo una precisazione medica o linguistica: nel contesto delle indagini e della cronologia dei movimenti dei testimoni, questo dettaglio potrebbe aprire a nuove riflessioni. La Perri è chiara nel sottolineare la differenza sostanziale: “Dire ‘avevo un gesso’ implica un’impossibilità fisica di rimuoverlo, mentre un tutore può essere tolto e rimesso all’occorrenza. Sono due cose completamente diverse, e questa differenza pesa, soprattutto quando si parla di alibi, ricostruzioni e orari”.
La testimonianza della madre conferma: “Paola non aveva il gesso”
A rafforzare la versione di Albina Perri interviene anche una dichiarazione resa a verbale dalla madre di Paola Cappa subito dopo l’omicidio. La donna fornisce un racconto dettagliato del percorso ospedaliero della figlia: ricoveri a partire dal 13 luglio 2007 fino ai primi di agosto, terapie, e la conferma dell’uso di un tutore, non di un gesso. “Il tutore lo abbiamo ancora in casa. Arrivava fino alla caviglia. Paola lo portava sempre, anche a letto”, precisa la madre. Una versione puntuale, coerente e priva di ambiguità.
Un altro dettaglio emerge dal racconto materno: le iniezioni di antidolorifici somministrate da una parente – la zia Rita – ogni mattina, e poi da una signora del paese, Giovanna. Queste attività terapeutiche si collocano precisamente nel periodo in cui Paola si stava riprendendo, tra il secondo e il terzo ricovero, appena qualche giorno prima della morte di Chiara.

L’importanza di una “piccola” discrepanza
Nel caso Garlasco, ogni dettaglio è stato analizzato e soppesato nel corso degli anni, eppure, come dimostra l’intervento di Albina Perri, alcune incongruenze sembrano sopravvivere al tempo e alla giustizia. La differenza tra un tutore e un gesso potrebbe sembrare marginale, ma in un’indagine dove i movimenti dei testimoni, le capacità fisiche e i racconti sono fondamentali, può cambiare radicalmente il contesto delle dichiarazioni.
Come sottolinea la Perri, la memoria è fragile, ma le parole – soprattutto quando scritte – restano. E se quelle parole non corrispondono al dato reale, vale la pena interrogarsi sul perché.